Cayo Cruz 2015 (Cuba)
Marco
Sportelli
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Cayo Cruz -
Un volo, una veloce corsa
in barca e dai miei piccoli riali appenninici mi trovo catapultato in
questi spazi immensi e luminosi. Le flat: luce abbagliante, acqua
turchese, orizzonte illimitato, sabbia e mangrovie. E pesci, tanti
pesci.
Non ho
mai pescato in mare a mosca e tantomeno ai tropici. Non conosco questi
pesci, non so cosa, come e quando mangiano. Non ho punti di riferimento.
Tutto è vasto, bello, indefinito, possibile. Il riverbero mi acceca, il
sole brucia sulla pelle, il vento è una costante, e io mi trovo qua,
principiante assoluto, nel Nuovo Mondo a scoprire un mondo nuovo.
Ho maturato pochissime
esperienze di pesca all’estero e non sono venuto a cuor leggero.
Ancora mi pesa il ricordo di
un’intera settimana inseguendo le Steelhead del bacino dello Skeena.
Esperienza devastante che mi ha confermato ciò che già sapevo: non
riesco a pescare l’acqua, non fa per me. Dopo pochi lanci mi sento come
un “cricetone” che gira inutilmente sulla ruota. Pochi minuti e la noia
e il tedio a morte mi sopraffanno, smetto di pescare e faccio sera
diversamente. Tempo e soldi per guida e lodge sprecati. Qui, superato
l’inevitabile impatto iniziale, la prima cosa che mi salta agli occhi è
che l’azione di pesca è visiva. Non è la “Pesca a Mosca” come la intendo
io, ma tra i tanti tipi di “Pesca con la canna da Mosca” è una di quelle
che più gli assomiglia. Non si pesca a galla ma neppure l’acqua. Le
prede si intuiscono, poi si vedono, si inseguono e infine le si tenta
con mosche abbastanza piccole da farmi sentire a mio agio.
Sono comunque nelle
mani della guida. La particolarità dell’ambiente e delle prede non
permette di far da soli. Per prendere un certo pesce devi conoscerlo,
capirlo e questa conoscenza diventa parte del carattere del luogo. Ma
per farlo, occorre tempo. Questo è il motivo per cui i pescatori o le
guide di un determinato posto sono altrettanto interessanti dei pesci.
Bisogna osservarli, ascoltarli. Il loro modo di agire, di muoversi, di
ragionare si è gradatamente allineato ai comportamenti delle loro prede.
L’unica assonanza con l’Appennino è che anche qui, appena disormeggiati
dall’imbarcadero, ci si può dimenticare per qualche ora che l’uomo
esista. Tutto il resto è differente.
Differente anche dal mio immaginario. Avevo
idealizzato spiagge bianche, pesci stagliati contro il fondo, una
piacevole brezza marina. Una pesca facile, serena, vissuta con ritmo
lento e spirito balneare. In realtà è un’attività dura e impegnativa.
Ore di barca, vento più adatto al kite surf che al fly casting, fondali
eterogenei, spesso soffici e non sempre adatti al wading. Superficie
increspata, prede diffidenti, esseri evolutisi più per confondersi con
l’ambiente che per far bella mostra di sé. Pesci che esistono solo per
un breve attimo, per poi smaterializzarsi nuovamente tra i mille
riflessi e le sfumature del fondo.
Si pesca soprattutto dalla barca, con gli occhi e
l’esperienza della guida a far la differenza, aumentando possibilità di
avvistamento e cattura o, dove e quando possibile, si cercano le prede
camminando nell’acqua bassa delle flat. La guida mi guida, mi porta, mi
indica il pesce, mi consiglia dove e come lanciare la mosca, dove e come
recuperarla. All’inizio, soprattutto dalla barca, mi sento solo un mero
esecutore. A piedi va meglio. Posso individuare la mia preda,
pianificare l’avvicinamento, decidere l’azione di pesca. Poi, poco alla
volta, col passare dei giorni, anche per me le ombre diventano pesci; i
colori dei fondali, le pass, gli orari, le maree cominciano a generare
variabili se non chiare almeno comprensibili. Pian piano maturo la
sensazione di sentirmi un po’ più a casa, più parte del gioco, più
artefice degli eventuali successi. Certe catture finalmente sono solo
mie.
In questi spazi immensi ed eterogenei ci sono diverse specie da
insidiare. Al trio Bonefish, Tarpon, Permit si uniscono i Barracuda con
i loro esplosivi attacchi in superficie, i Lemon shark da evitare per la
loro interminabile difesa, gli Snapper nei profondi canali bordati di
mangrovie e qualche Jack.
Tailing fish – Dove ci sono le condizioni è bello muoversi a piedi, senza fretta su queste ampie lagune, scrutando segni premonitori, tentando di dare forma di pesce a riflessi, ombre, irregolarità del fondale. Cercando la scia, la pinna. Cercando qualcosa di vivo, qualcosa che non sia solo vento luce alghe ombra. Non sono abituato all’acqua calda, l’unica ragione per cui mi accorgo di aver messo i piedi in acqua è la leggera resistenza opposta dal liquido. Non sono abituato all’esiguo abbigliamento: niente wader, scarponi, giubbotto, guadino. Per questi brevi raid bastano le scarpette in neoprene, un rotolo di filo e una scatola di mosche.
Scatola di mosche è riduttivo. Quello che mettiamo
nel taschino o nel giubbotto al fiume è in realtà una scatola magica,
piena di piccole cose fatte a mano, che richiedono abilità, che
carichiamo di aspettative, di fiducia, di magia. In un periodo in cui
l’unico utilizzo delle dita è quello di digitare, costruire qualcosa da
noi è inconsueto, dà molta soddisfazione.
E il meglio della pesca in wading è la ricerca dei pesci in tailing. Quando la marea è ai minimi è facile trovarli in pochi centimetri d’acqua a grufolare tra le rade mangrovie in cerca di cibo. Ecco, così, con le pinne e parte del corpo fuori dall’acqua, li vedo anch’io! Bello, bellissimo, eccitante, stimolante. O forse semplicemente molto più affine al mio imprinting di pescatore d’acqua dolce. Camminare nell’acqua bassa, cercare un pesce in movimento tra i cespugli mi riporta all’ordinario, a una giornata di pesca ai Black bass. Tranne che invece di saltare questi pesci ti strappano, inarrestabili, tutta la coda fuori dal mulinello.
Cioè, non è che siano
inarrestabili, a fermarli ci potete anche provare, ma non è detto che ci
riusciate… (vedi foto) Cuba - Nel gennaio del 1959 i
rivoluzionari guidati da Fidel Castro, animati da uno spirito
riformatore di stampo nazionalista, entrarono all’Avana e interruppero
un regime dittatoriale strettamente legato agli americani che durava da
decenni. Due anni dopo, in seguito alle nazionalizzazioni imposte dal
governo Cubano, gli Stati Uniti risposero con un embargo totale che
persiste tuttora. Questi eventi hanno caratterizzato la storia recente
dell’isola generando strategie adattative uniche e uno sviluppo socio
economico particolare.
Tenetevi qualche giorno di tempo per scoprirle. Cuba,
con i suoi ritmi lenti, la dolcezza del clima, la musica per strada, con
il suo Rum e i suoi sigari, merita una visita. La buona disposizione
naturale dei locali, la discreta cucina, questo mondo con regole del
gioco un po’ diverse dalle nostre sono una sorpresa, sono un piccolo
viaggio nel tempo, un ritorno agli anni ‘50 con attori, scenografia e
copione leggermente modificati. E’ come un film immaginifico, un
“Ritorno al Passato” ma in un tempo ancora da passare.
E questi giorni vi serviranno anche per acclimatarvi. Saltare immediatamente dal rigido inverno a 10 ore di pesca sotto il sole tropicale può diventare molto pesante.
Per questo itinerario mi sono appoggiato ad Avalon.
Le destinazioni che vi propongono sull’isola sono varie ma le più
interessanti sono i Giardini della Regina, Cayo Largo e Cayo Cruz.
Cambia la comodità logistica e l’esclusività del posto ma la pesca e le
catture si equivalgono. Cayo Cruz è un ampio parco naturale in cui la
pesca, tranne quella sportiva, è bandita. E’ anche l’ultimo Cayo non
ancora aperto al turismo di massa. Per poco. Sono in corso i lavori di
ripristino della lunga strada sterrata che lo collega alla terraferma,
propedeutici alla realizzazione di un articolato complesso turistico
sulla lunghissima, bellissima spiaggia che si affaccia all’oceano. La
pesca forse non è esattamente quello che io intendo per pesca a mosca ma
è un’esperienza interessante e di certo pescare a piedi nudi in Dicembre
è un gran bel modo di spezzare l’inverno. Non fatevi intimidire dalla
distanza, è una vacanza alla portata di tutti e Avalon è in grado di
organizzarvi nei minimi dettagli la settimana di pesca e i necessari
trasferimenti interni. E il momento è questo. Prima che ci sbarchi
Cosa serve
- Per praticare proficuamente questa pesca è necessaria un’attrezzatura
adeguata. L’abbigliamento deve essere adatto al clima tropicale, quindi
leggero, che si asciughi velocemente e fornisca un’adeguata protezione
UV. Un buff, guanti, berretto e occhiali polarizzati completano il
tutto. Se volete pescare in wading sono indispensabili gli idonei
scarponcini in neoprene, il fondale spesso è soffice e normali scarpe da
ginnastica non fanno allo scopo. L’azione di pesca richiede rapidissimi
cambi di attrezzatura quindi disporre di almeno tre canne già montate e
pronte all’uso fa la differenza. La lunghezza ideale è
Artificiali
- I pesci
entrano nelle flat per nutrirsi prevalentemente di granchi e gamberetti.
L’imitazione di granchio è la più usata per i Permit mentre per i
Bonefish si utilizzano artificiali che hanno come capostipite il Crazy
Charly. Gli occhi più o meno appesantiti montati vicino all’occhiello
hanno la funzione di far muovere la mosca a saltelli e con l’amo
capovolto. Il corpo vero e proprio non è quello avvolto sull’amo ma il
ciuffo di peli o fibre che, partendo dagli occhietti interseca la punta
dell’amo. I pesci sembrano apprezzare colori tenui e naturali come il
tan (nocciola chiaro) e materiali morbidi come il pelo di coniglio in
strip o a ciuffo. Preparate qualche grosso popper in foam per scatenare
gli attacchi in superfice dei Barracuda e delle needle fly montate con
un secondo amo in coda. Le mosche da Tarpon, ammesso che ne incontriate,
devono essere montate su ami robustissimi, la classica Black Death o
Azione di pesca
–
E’ basata sulla velocità e la sintonia con la guida. Lui indica
direzione e distanza della preda e il pescatore, dopo averla avvistata,
lancia alla meglio qualcosa davanti al pesce. Facile da dirsi, difficile
da farsi, contro di noi giocano molte variabili: vento, corrente,
scarroccio della barca, instabilità della nostra posizione, cambi di
direzione del pesce. La differenza fondamentale rispetto alla pesca in
acqua dolce è che le trote tengono la posizione mentre questi pesci sono
in continuo movimento, un attimo prima sono davanti e un attimo dopo, se
non sono spariti, sono già alle spalle o fuori tiro. I falsi lanci
devono essere pochi e decisi. Un buon trucco con pesce in movimento è
fare un primo lancio corto per verificare distanza, effetto del vento e
poi allineare e allungare il lancio sull’obiettivo. Difficile da
automatizzare è lo strip-strike, si ferra sempre con la mano che tiene
la coda e mai con la canna, reazione istintiva difficile da modificare.
Verificate spesso l’integrità del finale: basta un piccolo nodino
accidentale per spezzare con uno strattone anche uno
Permit -
Ora il vento è calato. Un gruppo di pesci sta grufolando sul fondo, le
code fuoriescono euforiche dal pelo dell’acqua, i musi sollevano nuvole
di sabbia. Guardo la scena elementare davanti a me. Anche la mia vita a
volte l’ho sognata così semplice e lineare. Facili le scelte, semplici
le decisioni: il colore dell’esca e il punto di posa, perché alla fin
fine prendere o non prendere quel pesce è solo una funzione marginale
del tutto, dell’essere qui. E poi in più di trent’anni di pesca a mosca
ho acquisito gesti e strategie che anche qui posso mettere a frutto. Ho
imparato più del piccolo mondo della pesca, fatto di mosche e di pesci
che dell’altro, quello grande, fatto di figli, di soldi, di scelte di
vita. E poi sono Bonefish, belli, potenti, ma tutto sommato numerosi e
non troppo smaliziati.
Chi viene qua in realtà
ha solo un desiderio: prendere un Permit. Anch’io desideravo prenderne
uno come ricordo di Cuba ma credo che nessun Permit desiderasse divenire
un mio souvenir. Per dedicarsi alla loro cattura, oltre a un po’ di
fortuna, occorre tanta determinazione. Occorre ignorare i Bonefish e
mirare esclusivamente alla loro ricerca, sperando, solo sperando, di
avvistarli, di non spaventarli, di essere così fortunati da fargli
cadere un’artificiale abbastanza vicino, di convincerli veramente a
ghermire l’esca, di riuscire a contrastare la loro potente difesa, di
tenerli attaccati all’amo fino alla barca. Non è per me, una coda che
fuoriesce dall’acqua o la scia di una school di Bonefish, promesse di
facili catture, mi svia immediatamente dai miei propositi. Succede come
al fiume, non so resistere a una trotella che bolla, a costo, troppo
spesso, di spaventare quella bella che entrerebbe in attività da lì a
breve.
Per gli appassionati del Permit Cayo Cruz è un hot
spot. Sono presenti in buon numero e di taglia discreta. I Permit sono
degli opportunisti ed è frequente vederli assieme alle razze. Queste
setacciano e smuovono il fondo in cerca di cibo e loro, subito dietro,
sono pronti a ghermire tutto ciò che fugge al loro passaggio. E’ facile,
anche per un principiante come me, riuscire a lanciare su diversi
esemplari e vederli inseguire l’artificiale. Il difficile è catturarne
realmente uno.
Ho sognato questo posto
ancor prima di pensarlo, senza sapere che esistesse. Vaghe idee di mondi
lontani: i Salmoni del Canada, le flat Caraibiche, le grosse Fario della
Nuova Zelanda…
Sogni
nel cassetto da realizzare uno a uno, senza fretta, con moderazione.
Meglio un sogno rimasto, un sogno ancora da sognare, che un cassetto
definitivamente vuoto.
Le esperienze si fanno solo una volta nella vita.
Quando ritorniamo in un posto lo facciamo sempre per rivivere la
dolcezza e la meraviglia della prima volta. Uno scorcio, un taglio di
luce, un odore, soprattutto un odore, hanno la facoltà di farci tornare
per un attimo là, alla prima volta. E una nostalgia infinita ci
travolge… |
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