Lapponia in solitaria

 

Marco Sportelli  

(Già pubblicato su Fly Line)

 

 

2017 - La strada bianca s’inoltra tra fitte betulle e un morbido sottobosco. Un bivio secondario prende la vaga direzione del fiume, gira su se stesso, sale, scende, attraversa un paio d’acquitrini e finalmente, oltre la costante cortina d’alberi, traspare il luccichio del fiume. E’ piovuto, il cielo velato è appena macchiato d’azzurro. L’umido nell’aria e il fresco sulla pelle mi raccontano storie di pesca.

Poco più a valle, tra bosco e acqua, una tenda e un cofano sollevato.

Ci prepariamo senza fretta scrutando con un po’ d’invidia i locali che si affaccendano attorno al mezzo. Per loro, con ampi spazi a disposizione, poche strade e notevoli distanze da percorrere, vivere la natura in plein air è pratica comune. Il campeggio libero, tranne basilari norme di buon senso, è regolamentato in maniera poco restrittiva: ci si può fermare ovunque, anche in terreno privato, evitando di sostare troppo vicino alle abitazioni.

E’ trascorso troppo tempo dall’ultima volta che ho pescato in tenda, sintomo inequivocabile degli anni che passano, ma di quelle esperienze conservo ricordi vivissimi. Nel frattempo mi sono impigrito e frequentato famosi NK; ho affittato comode casette in riva al fiume e pagato permessi a gestori di riserve per dirmi come, dove e quando pescare; ho preso pesci tanto grandi e stupidi da far vacillare anche la sospensione d’incredulità che mettiamo in atto leggendo un romanzo o pescando in riserva.

Ho cominciato a sentirmi più preda che predatore e allo stesso tempo ho cominciato a perdere traccia dei miei giorni sul fiume: tutti uguali, banali, prevedibili. Cresce la voglia di libertà e avventura.

Non sempre campeggiare è un piacere. I due locali, molto più provati dall’aver finito la birra che dalla pioggia notturna, ci fanno capire che l’accumulatore è a terra e gli servirebbe un po’ d’aiuto per tornare alla civiltà…

 

Quella tenda in mezzo al nulla ha continuato a popolare il mio inverno. Dormire al rumore del fiume, mentre il caffè si scalda attraversare l’erba bagnata e lavarmi la faccia con acqua da trote, è un’emozione che comincia a mancarmi. Vorrei farlo anch’io, ma quest’anno torno su da solo, per campeggiare in mezzo al nulla servirebbe almeno la rassicurante presenza di un amico.  Dovrò accontentarmi di quel pizzico d’adrenalina che mi accompagna quando viaggio e pesco in posti isolati. A ogni modo faccio un esercizio di stile, verifico pesi, misure, costo del bagaglio aggiuntivo, ma più ci penso più mi convinco che non è il caso, è giusto così. Pazienza, sarà per un’altra volta…

 

2018 - Lulea. Recupero i bagagli dal nastro e li carico in macchina. Il trolley con tenda e kit da campeggio sembra meno pesante di quando l’ho preparato, ora che sono in zona e tutto mi è familiare si è alleggerito di quel carico d’angoscia e d’incertezza con cui l’ho riempito.

Una sosta all’unico supermercato aperto fino a tardi e parto. Su, verso nord, oltre il circolo polare artico. Metà luglio, sole tutto il giorno. Beh, sole non proprio. Se venite quassù con l’intenzione di vederlo a mezzanotte potreste andarvene delusi. In verità il sole è già una fortuna vederlo a mezzogiorno, ma la luce sì, quella c’è sempre. Una luce perenne, da tardo pomeriggio, spesso filtrata da una collezione di nubi da far invidia alla pubblicità di un noto caffè.

Muoversi in Lapponia è molto facile, seppure gli insediamenti e le abitazioni siano rari e distanziati tra loro, il reticolo stradale è articolato e tanti stradelli, più al servizio dell’industria del legname che dei pochi pescatori, s’inoltrano per chilometri tra boschi, laghi e fiumi. Strade bianche ma spesso ampie e ben tenute, che con l’aderenza di quattro ruote motrici invitano a farsi inseguire da lunghe scie di polvere. La logistica invece, fuori dalle rare cittadine, è molto più complicata. Le strutture ricettive sono poche, spesso dislocate lontano dai nostri punti d’interesse, difficilmente contattabili on-line e una volta in zona approvvigionarsi anche solo di carburante, alimentari o permessi di pesca richiede lunghi spostamenti in orari che di solito sono i migliori per la pesca. Bisogna programmare attentamente e arrivare muniti di tutto.

 

Vagare nel bosco a mezzanotte in cerca del posto giusto per montar la tenda in altri luoghi sarebbe surreale, ma quassù la differenza tra giorno e notte è marginale, tutto si dilata. E’ un’estate anomala, da settimane anche in Lapponia il clima è caldo, siccitoso, i livelli dei fiumi sono bassissimi, ma anche così, arrivato al fiume, mi attende una pioggerella persistente e uno squarcio in un pneumatico. Ho guidato per ore, cambiato due aerei, percorso tanti chilometri di strade sconosciute per arrivare fin qui, un vago “qui”, vicino all’acqua e ora mi trovo lontano dall’asfalto, solo, stanco, bagnato e senza copertura telefonica. Un leggero avvilimento prende forma.  Per montar la tenda sotto la pioggia sono attrezzato, per una gomma distrutta, i geni che hanno eliminato le ruote di scorta, non hanno soluzioni. Meglio dedicarmi a ciò che so fare e rimandare il resto a domani…

Se volevo mettermi alla prova, direi che ho centrato l’obiettivo!

Ho bisogno di confortarmi. Se siete stati per qualche tempo lontano dalle comodità, saprete che non c’è nulla di più efficace per risollevare l’animo, di un fuoco e qualcosa che bolle in pentola. Sembrerebbe facile ma non qui, non muovendosi in aereo. Gas e alcool puro non possono essere imbarcati, quindi i miei fornelli da campeggio sono rimasti a casa, e sul fuoco libero, ammesso di riuscire a trovar legna asciutta al massimo ci si può cucinare del pesce al cartoccio. Ci ho pensato, per tempo, e ho risolto con un piccolo fornello a pirolisi. Ora, solo a guardar questa fiamma intensa, mi si scalda il cuore. L’attrazione per il fuoco è ancestrale, genera una reminiscenza atavica di casa, di protezione. Il fuoco è rassicurante. Con una manciata di pellet mi lascia tempo di cuocere la pasta e di far salire il caffè sulla moka.

Il cielo oltre il velo d’alberi si rasserena, e io con lui. Un caffè, un sigaro, un goccio di grappa, un fiume placido che mi scorre davanti… beh, faccio cose stupide ma mica mi devo trattare male!

Stare qui in mezzo al bosco mi suscita un po’ di nostalgia, mi rimanda a quando ci portavo i miei figli. I ricordi di quei tempi ora si confondono con odore di legna, salsicce sul fuoco, rumori notturni, a un momento pieno di sogni e possibilità. I ragazzi son cresciuti, di quelle avventure forse non conservano memoria e tanti sogni son rimasti tali.

Il giorno dopo scoprirò di essere a “soli 200 km” dalla gomma di ricambio più vicina.

 

Se è vero che le giornate non hanno mai termine è anche vero che i pesci percepiscono molto bene le varie fasi del giorno. Una delle prime correlazioni che ho notato è che, all’opposto di ciò che accade alle nostre latitudini, i temoli sono molto più interessati a cosa passa sul pelo d’acqua nelle ore di piena luce, fuori da questi orari l’attività scema progressivamente.

Ma va bene, pescare tutto il giorno è una cosa che m’interessa relativamente, mi piace guardare, cercare di capire e pescare solo quando c’è qualcosa per cui pescare. Prendermi il mio tempo.

Di solito non siamo padroni del nostro tempo, corriamo al fiume, catturiamo qualche pesce o anche no, e scappiamo a casa. L’“anche no” ci genera frustrazione e per evitare che accada spesso andiamo in una riserva e paghiamo un permesso. Di positivo c’è che una buona riserva di pesca costa un po’ meno di una seduta dall’analista.

Con i tempi obbligati e la fretta che m’impone il mondo reale, ora apprezzo molto essere qui a poter fare ciò che sto facendo alla velocità che preferisco, rapida o lenta, in funzione di come mi sento in questo momento. Non c’è fretta, non ci sono altri pescatori che mi pressano alle spalle, punti di uscita obbligati, mia moglie che mi aspetta per cena, la luce che scema… Solo voglia, passione, un pizzico di buon senso e nessuna competizione.

Il bello di pescar soli è anche questo: la più totale assenza di competizione. Non mi piace, se capita smetto di pescare e mi sposto o cedo volentieri il posto a un amico, soprattutto se per l’amico è un posto nuovo. Ho smesso di valutare la riuscita di una giornata di pesca dal numero di catture, contar pesci, voler sempre lanciare e catturare mi sembra molto come un lavoro. Posso pescare intensamente e non riuscire a smettere se c’è ancora in giro un pesce per cui valga la pena, ma posso rallentare, osservare quello che mi circonda, perché spesso è straordinario e non è ciò che vedo dalla finestra di casa. Posso anche smettere di pescare, scattare foto, cercar palchi di renne o raccogliere mirtilli.

Diamo il nostro meglio quando siamo lontani dai ritmi di lavoro, dalle scadenze giornaliere, quando non siamo schiavi degli orari. Diamo il nostro meglio quando rallentiamo, sempre più. L’unico lato positivo dell’invecchiare è che quest’attitudine diventa sempre più naturale.

Affrontiamo la giovinezza in velocità, ne sfruttiamo l’inerzia per riuscire a orbitare ai margini esterni della mezza età, ma poi finiamo inevitabilmente per essere attratti dal ruvido abbraccio della vecchiaia, che ci rallenta. Sono ancora nella seconda fase e mi esercito nel farlo il più tangenzialmente possibile. Credo che questo mettermi alla prova faccia parte dell’esercizio, come lo sono tutte le abilità che mi riservo ancora di migliorare. Il bello della pesca a mosca è proprio questo, non si finisce mai d’imparare. Col tempo si passa dal non saper fare al saperlo, dal non conoscere al conoscere… ma mai completamente. Ma non ho fretta, non voglio farlo in maniera sistematica, non ho la necessità di essere bravissimo ne competere con nessuno. “Competere”, nuovamente. E’ un termine che entra sempre più spesso in rapporto anche con la pesca a mosca. Conosco bene i garisti, da giovane ne ero circondato. Non riuscivo mai a portarli a pesca, quando venivano, era solo perché dovevano “provare”, “sperimentare”, “valutare”, mai perché avevano voglia di pescare.  Io vado a pesca perché voglio non perché devo.

 

Adoro pescare su un pesce che bolla, ma apprezzo anche la pesca in caccia, ci sono abituato. In piena estate, quando i fiumi più a valle hanno più bagnanti che acqua, mi piace esplorare i piccoli riali che scendono dal mio Appennino. Piccoli angoli freschi e ombrosi dove il concetto di estate assume una valenza diversa. Fenditure che tagliano il bosco fino alle sue origini. Le trote ci sono ma non sono facili da vedere, e se le vedi, è tardi. Nei momenti più propizi puoi trovarne una che bolla nelle pozze più ampie, ma le altre le puoi solo immaginare: nascoste dietro a un sasso, a fianco del salto d’acqua, tra le bolle di una cascatella…

Anche in questi fiumi la pesca è soprattutto in caccia. Sono corsi d’acqua imponenti che si allargano spesso in laghi dal flusso lentissimo. Il fondo granitico, il basso gradiente e il lungo, freddo inverno ne fanno acque poco produttive. Se la pesca estiva è generalmente buona, è grazie al fatto che il pesce che noi cerchiamo tende a spostarsi e concentrarsi nei brevi tratti torrentizi.  Le zone da preferire sono sempre le lame d’acqua veloce vicino ai laghi o le sezioni di fiume che ne collegano due successivi. Individuata l’area di pesca, i posti di stazionamento sono simili a quelli che già conosciamo cercando temoli in Italia.  

Il sole si avvicina alle punte degli alberi e il mondo prende l’incanto del crepuscolo, quando gli oggetti pare risplendano di luce propria. Ancora qualche momento per godermi la pace della sera e poi cerco tra i massi sommersi la via per raggiungere la sponda. A quest’ora l’attività rallenta, ma non solo. Questi fiumi granitici sono infimi, disseminati di rocce enormi, l’acqua limpida ma torbosa trascolora tutto ciò che bagna: tronchi, massi e ciottoli si uniformano, rendendo poco percepibile la conformazione del fondo. Il bastone da guado è indispensabile, ma non basta, farlo quando la luce si attenua è sempre un azzardo. Avete notato che è sempre, inevitabilmente, quando ci rilassiamo perché il pericolo ci sembra ormai superato che ci capita di mettere un piede in fallo o di scivolare? Non abbassate mai la guardia e ricordatevi che quell’ineluttabile attrazione per l’acqua che proviamo da quando eravamo bambini non è solo poesia, è fisica newtoniana, ed è reciproca: anche l’acqua farà di tutto per attirarci verso di lei!

Non sempre però la scienza è infallibile. Ad esempio ho notato che un corpo immerso in un fluido non riceve necessariamente una spinta dal basso verso l’alto, più spesso la riceve di lato e finiamo a bagno, e anche uno degli assunti della geologia, che afferma che col tempo l’acqua erode tutte le rocce, è falso: nei fiumi che frequento i massi, invece di rimpicciolirsi, negli ultimi decenni sono cresciuti anno dopo anno, con un’evidente accelerazione passati i cinquanta. Va beh, sono lunghe giornate…

In verità, campeggiando ai margini del fiume un paio di tentativi serali li ho fatti, e sì, salgono meno pesci ma la taglia è più interessante. La differenza però non è tale da giustificare il rischio.

Questo crepuscolo infinito inganna, m’infilo nel sacco a pelo che ormai è tardissimo. Il gorgogliare dell’acqua che filtra attraverso la tenda evoca altre acque. Le memorie dei passati cinquant’anni si fondono e confondono, immagini del torrentello sotto casa si mischiano a sorgive Balcaniche, posti che ho pescato abitualmente ad altri che ho solo visto passando, e molto si mischia a quello che ho detto, pensato, scritto. Scritto, soprattutto. I pensieri mutano ma ciò che scrivo mi diventa chiaro, definitivo, poi sparisce. E’ strano, sento tutta la vita la necessità di spiegare una certa cosa poi, quando finalmente l’ho capita, quell’urgenza improvvisamente svanisce. Forse tentavo di spiegarla agli altri per comprenderla io stesso.

 

Mi sveglio molto presto, ma anche così fuori già mi attende il riverbero del sole sull’acqua. Insacco la tenda e parto per la prossima meta, su, ancora più a nord. Proseguo a lungo sulla strada, raggiungo l’asfalto, poi l’asfalto diventa polvere e ghiaia, poi terra, erba e infine finisce. E’ un fiume nuovo, ma più piccolo, mai visto. Da ragazzo sognavo di pescare tutti i fiumi citati dalle riviste, molti di quelli che ne trovavo il nome sulle carte geografiche e qualcuno senza nome di cui riuscivo solo a seguirne il percorso con il dito sulla mappa. Quando si hanno vent’anni si può tutto, per possibilità, aver innumerevoli stagioni di pesca davanti e un mondo intero da scoprire regala una gioiosa spensieratezza. In realtà dopo tutti questi anni sono riuscito a malapena a esplorare i torrentelli del mio Appennino, ma i sogni della gioventù non sono tutti persi, semplicemente ora devo fare delle scelte, decidere cosa fare e quando. Non ho più vent’anni, ne ho molti di meno… (I. Fossati)

Ogni volta che affronto un fiume nuovo son sempre pieno di dubbi, non so dove cercare i pesci e con cosa tentarli. Le bollate in questi fiumi del nord sono talmente sporadiche da non essere d’aiuto. Potrei provare a sondare le correnti con una ninfa ma mi annoia.

Persisto nella mia visione romantica della pesca a mosca, che è poi l’unica che conosco. Visione che si contrappone alla cattura a ogni costo, all’essere sempre in pesca, al dover affrontare il fiume a prescindere da orario del giorno, livello, colore dell’acqua. A prescindere dagli insetti. A pesca andiamo in posti naturali, cerchiamo il contato con la natura, c’immergiamo in un’esperienza fatta di acqua, pesci, insetti, uccelli, prati fioriti. Ma se passo tutto il giorno a guardare la punta della canna o un filo colorato che sparisce sott’acqua, probabilmente mi perderò molte delle cose meravigliose che mi accadono attorno. Bollate comprese.

Qualcuno mi definisce un dinosauro, restio ai cambiamenti, al nuovo che avanza. Sì, è vero, mi è sempre piaciuto opporre un po’ di resistenza passiva, mettere un po’ di sabbia in questo meccanismo che mi trascina troppo velocemente, da una novità all’altra, verso cambiamenti troppo repentini per essere metabolizzati. Ma vi dirò, mi sento anche a mio agio nei panni di dinosauro: sono stati esseri straordinari e quando si sono estinti sono stati sostituiti da bestie talmente insignificanti da non lasciarne memoria!

O forse, più semplicemente, sospetto che pescare in un modo che conosco bene mi renda più sereno e felice. Ed essere felice è uno dei motivi per cui vado a pesca.

Se poi decido di pescare a galla le variabili si riducono quasi solo alla scelta della mosca.

 Già, le mosche… Guardandole mi godo il loro misto d’ingenuità e possibilità. Dove non esiste una logica stringente, molto spesso l’ignoranza è compensata dal gusto estetico, o dalla superstizione. Più le catture sono sudate e le imitazioni non si sa bene cosa imitino, più ci si affida al concetto universale di bellezza “se piace a me, piace a tutti”. Pensate alle mosche da salmone: lanciare tutto il giorno e non sentire nulla può essere veramente frustrante, farlo con un’imitazione bellissima un po’ meno. Quando ho cominciato a pescare la stessa logica era applicata anche alle mosche da trota. Esistevano artificiali con nomi bellissimi e abbinamenti di colori stupefacenti, sembravano tele di Kandinskij ricamate da Missoni. Chi faceva mosche conosceva molto meno d’insetti, fasi delle schiuse e materiali, quindi compensava con l’estetica.

 Continuo a leggere che in fatto di dressing non s’inventa nulla, che le imitazioni del passato funzionavano e funzionerebbero ancora. Sì, è vero, ma molto poco. Le mosche di un tempo son più belle da tenere in bacheca che sulla punta del finale. Le mosche moderne hanno sicuramente perso in poesia ma guadagnato in efficacia. L’approccio più scientifico dei costruttori, i nuovi materiali, l’uso generalizzato del montaggio parachute, il CDC e in parte il foam hanno rivoluzionato permanentemente e senza possibilità di ritorno il nostro modo di pescare. Passo dopo passo è cambiata l’architettura dei nostri artificiali, riusciamo a utilizzare mosche che giacciono con il corpo piatto e visibile sull’acqua, o appese alla pellicola superficiale, abbiamo imparato che le code divise supportano in modo straordinario la parte più pesante dell’amo, abbiamo imparato che la fase preferita dal pesce è quella emergente, mentre in altri casi serve movimento, e abbiamo imparato a costruire le imitazioni dei vari insetti proprio secondo queste esigenze. I nylon del terzo millennio ci permettono di scendere di diametro senza esitazioni, ma provate a legarci una Greenwells Glory e mi saprete dire quanto vi durerà il vostro esile terminale! C’è da dire però che Rete e Riviste sono anche piene di mosche assolutamente stupide, in un mondo che gira troppo veloce non c’è tempo di far selezione, sono spariti molti filtri e chiunque, anche il pescatore più incapace ma con una buona manualità, può proporre obbrobri improbabili.

Come ho detto è pesca in caccia, per essere efficaci servono mosche visibili, che reggano la corrente e che ricordino ai pesci qualcosa di noto. Le mie formicone parachute funzionano benissimo. Ci vorrà qualche escursione tra gli alberi per capirne il motivo: nel bosco ce ne sono a milioni!

Un'altra sera scende sull’acqua, un altro fuoco mi accompagna, poi il respiro del fiume mi culla, l’acqua lentamente si alza, dilaga nei miei sogni e questo fiume che scorre lento verso il mare mi trascina verso altri fiumi, verso altri giorni di pesca. Giorni lievi, sereni, gli unici che Dio ci sconta dal totale. 

Oggi mi serve più tempo, devo impacchettare con cura l’attrezzatura da campeggio contrastando l’incredibile attitudine che hanno queste cose ad aumentare di volume una volta usate. E tornare in aeroporto. Ma prima mi rimane ancora un fiume da pescare. Lungo la strada cerco il segnale telefonico, faccio il permesso on-line e mi studio il fiume sulla mappa sperando di aver scelto bene. Beh, in realtà non va mai tutto bene, puoi cercare di analizzare, valutare, pianificare ma non è pura matematica, è un’equazione con inserita l’imprevedibile incognita della natura. Diciamo che quello che spero quando vado a pesca, è che siano più le cose che vanno bene di quelle che vanno male, altrimenti il singolo pesce perso potrebbe diventare una tragedia che rovina la giornata.

Quassù c’è tant’acqua e poca gente, in Italia invece siamo troppi e molti fiumi da trote ce li siamo bevuti ormai da decenni. C’è anche qualche pescatore. Oggi incontro il primo, è un giovane lappone che mi fa un ampio sorriso ed entra in acqua poco a valle di me. Ha due bei temoli appesi alla cintura, lancia il suo galleggiante in corrente e dopo mezzora chiude la canna e se ne va con un altro pesce.

Pescare a mosca può assumere differenti significati per ciascuno di noi: un passatempo, un momento di respiro, una rivincita dall’altra vita dove tutto ci riesce peggio, un soggiorno in posti gradevoli, un’avventura fine a se stessa, una possibilità per stare qualche giorno con cari amici, un posto dove meditare e risolvere dilemmi dando tempo al tempo. Qualcuno si fa prendere troppo sul serio dalla nostra passione, la carica d’eccessivi significati etici e ne fa una ragione di vita. Per altri, come questo ragazzo che se ne va sorridendo felice lungo il sentiero, è solo un bel modo di passare il pomeriggio e rimediare la cena.

 

Mi sveglio non per la vivida luce del giorno ma al suono della sveglia, dalla cucina filtra profumo di caffè e odore di pane tostato. La gita non è finita, mi piace l’avventura ma non sono uno stoico, all’aeroporto qualcuno mi aspettava e il resto della vacanza l’ho trascorsa, come unico cliente, in un comodo lodge di pesca.

Apro la finestra e guardo il cielo: ci sono nuvole, non quelle drammatiche dei pittori ottocenteschi ma quelle bianche, candide, definite dei cieli luminosi di Magritte. M’incammino felice verso il tavolo da pranzo e la lenta pigrizia di un’altra di queste lunghe giornate piene di luce.

 

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