Memoria Paolo Locatelli
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Da sempre
l’autunno rappresenta per il pescatore, e per quello a mosca in
particolare, il momento dei bilanci; la stagione di pesca, che ormai volge
al termine, porta inevitabilmente a ripensare alle uscite dei mesi appena
trascorsi ed a confrontarle con quelle di tutti gli anni passati. E’ già diversi
anni che pesco a mosca e l’impresa risulta ogni anno più ardua. Per
fortuna ( sigh ! ) che negli ultimi anni le uscite sono state veramente
poche. Dunque, ho iniziato a pescare a mosca alla fine del 1976, siamo
quasi alla fine del 2004, c….. sembra ieri ma in realtà sono già ventotto
anni. Strana cosa il
tempo e …. strana cosa la memoria ! Ricordi di
fiumi, di pesci e di pescatori, ma anche di paesaggi, colori, odori ed
intime sensazioni che la pesca, più di ogni altra cosa, è sempre riuscita
a trasmettermi. Ma, si sa, la
memoria gioca spesso strani scherzi; così “scopro” che, all’inizio di
giugno del 1989, quella stupenda mattinata di pesca sul rio Canareccia, in
compagnia dell’amico
Massimo : compagno di scuola all’I.T.I.S. di Monza ma soprattutto compagno delle pescate del sabato, a cui non è mai fregato niente della pesca a mosca, ma instancabile pescatore quanto me e con il mio stesso desiderio di esplorare i corsi d’acqua più nascosti. Il suo motto, che recitava con orgoglio ogni volta che tiravo fuori la canna da mosca era: “Un uomo, un fiume, una canna, un mulinello e cento cucchiaini “. Con lui, nell’estate del ’77, ci siamo fatti 38 giorni di pesca consecutivi percorrendo tutto l’Appenino da Premilcuore alla Sila, ed in quella successiva addirittura 48 giorni ( ma “solo” 42 di pesca ) da S.Piero in Bagno al Gran Sasso più tutto l’interno della Sardegna. Luigi : con cui nel ’76 ho frequentato il corso di pesca a mosca organizzato dal Fly di Milano sotto la guida del mitico Silvano Rovida. Gigi, compagno di quasi tutte le pescate domenicali, “era un grande”; possedeva due Pezon et Michel in bambù da 7’1/2 per coda 5 uguali, ma ne usava sempre e solamente una. Quando, alla fine del ’79, lasciò la splendida fanciulla con cui era ufficialmente fidanzato da oltre quattro anni, perché gli toglieva tempo e denaro che avrebbe potuto dedicare alla pesca a mosca, Massimo avanzò l’ipotesi che l’altra canna se la fosse fumata in un momento di furore mistico. Enrico: compagno alla “scuola superiore per programmatori” presso l’IBM di Segrate e compagno di molte uscite in Valsesia e di tutte le pescate sul Toce e sul Ticino svizzero. Sua madre era svizzera, di Bellinzona o dintorni, e, grazie alle conoscenze del suo nonno materno, riuscivamo ad ottenere i permessi di pesca per alcuni tratti piuttosto “esclusivi” del Ticino. Di lui ricordo la grande passione per la pesca a mosca e , grazie ad una disponibilità economica elevata, gli assegni che “staccava” tutte le volte che andavamo nei negozi di Ravizza o Garue. Ma come pescatore la sua caratteristica principale era la più assoluta mancanza di “senso dell’acqua”, nonostante pescasse a mosca da parecchi anni non aveva la più pallida idea di dove trovare un pesce e, sorretto da una fede incrollabile, poteva continuare a lanciare per ore dovunque ci fosse dell’acqua. La sua maggior fortuna era quella di avere una faccia simpaticissima, certe sue espressioni ricordavano quelle di Cucciolo dei sette nani di Walt Disney (a cui forse aveva fregato le orecchie), per cui, a parte gli amici, trovava sempre qualcuno che si impietosiva e lo accompagnava “sul pesce”.
E poi Enzo,
Dante, Piero ed infine, ultimo in questo elenco ma primo per importanza,
il grande, l’incommensurabile, il mitico Silvano, l’unico amico di allora
che mi sia rimasto, che, per le sue doti umane e “piscatorie”, meriterebbe
ben più di un libro e che non posso liquidare in poche righe. Alla fine, dopo
parecchie ore di lavoro, mi trovo ad aver generato un “data base”
piuttosto corposo ed articolato che, con gli strumenti informatici in mio
possesso, ho la possibilità di elaborare in diversi modi; così mi rendo
conto che sul Varmo ci andavo perché ne valeva veramente la pena, non
tanto per il numero delle catture, dagli otto ai quindici pesci nel corso
delle sette uscite effettuate nel triennio ’77-’79, quanto per la taglia
delle medesime che, mediamente e per ogni specie, superava di oltre cinque
centimetri la taglia media delle catture effettuate su fiumi “omogenei”
quali il Sesia, il Toce ed il Mera. Una bella differenza ! Per quanto
riguarda il rio Canareccia, invece, il motivo di tanta soddisfazione
derivava tanto dal numero di catture quanto dalla taglia delle medesime.
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, anche nei nostri
torrenti più pescosi quali il Rabbi a Premilcuore o la parte bassa del
Bidente delle Celle, in due solo raramente riuscivamo a catturare più di
una ventina di Trote, e per prenderne una decina di taglia dai venticinque
centimetri in su potevano non bastare tre uscite. Ma, al di là
della raccolta dei dati a fini statistici, la rilettura di quei diari mi è
servita ad effettuare un “viaggio nella memoria” lungo vent’anni che mi ha
aiutato a capire come e quanto siamo cambiati noi ed il mondo della pesca
a mosca. In effetti,
quando i cambiamenti avvengono in modo lento e progressivo abbiamo tutto
il tempo per “metabolizzarli” senza traumi, così ci ritroviamo, senza
rendercene conto, “diversi in un mondo diverso”, e la memoria (… strana
cosa la memoria!) modifica i ricordi del “come eravamo” avvicinandoli al
“come siamo” ben più di quanto si possa immaginare. Una delle tante
cose che mi ha colpito, per esempio, è stata quella di “scoprire” che
quelle ormai famose trenta Trote del rio Canareccia erano state catturate
tutte con delle Humpy Red su amo 12. Mitica Humpy Red ! In quegl’anni era
una delle mie mosche estive preferite, e pensare che solo una quindicina
di giorni fa nemmeno ricordavo che esistesse! Ma oggi le
mosche ce l’hanno ancora un nome ? Personalmente, ormai già da qualche
anno, nei miei diari di pesca sono stato costretto a sostituire il nome
della mosca con il suo dressing. Una volta tutte
le mosche avevano un nome e con questo venivano identificate in maniera
inequivocabile, allora andavamo a pescare con la Gordon Quill, la Red
Spinner, la Panama, le Black e Blue Zulù, la Grayling Witch, la Wickam’s
Fancy, la Iron Blue Dun, ecc., nomi di per sé sufficienti a solleticare la
fantasia con magiche promesse di stupende catture, a quei tempi, le pur
eccezionali 699 di Devaux o RM6 di Riccardi, erano guardate con un certo
sospetto perché non avevano un nome; in pratica era un po’ come la
differenza che può passare tra leggere il numero sulla divisa di un
carcerato e leggere il nome sulla targhetta di un alto funzionario, resta
da dimostrare quale dei due sia la persona migliore ma l’approccio
iniziale è sicuramente a favore del secondo. Oggi gran parte
della magia di allora, in parte legata alla scarsità di informazioni, si è
persa. Alla fine degli anni ’70 la domanda che Luigi ed io ci ponevamo
prima di partire era : “Andiamo a pesce o a imparare ? “. Nel primo caso
partivamo per pescare veramente e potevamo scegliere dove andare tra
decine di acque che, probabilmente, le uniche mosche che avevano visto
erano le nostre. Nel secondo lo scopo principale era quello di osservare,
“travestiti da pescatori”, i moscaioli più esperti per cercare di carpire
qualche “segreto”; in questo caso le mete erano quasi obbligate: Sesia nei
dintorni di Varallo o Ticino nella zona di Vigevano. Adesso possiamo
leggere (e rileggere ! n.d.r.) tutto di tutto, abbiamo videocassette,
programmi televisivi e ….. andiamo a pescare con l’emergente CdC; per me
CdC ha sempre significato C…. di Cane ed era sinonimo di BdG (Boia d’un
Giuda). Le cose fatte alla CdC, o alla BdG, erano cose fatte male, tanto
per fare o perché, pur senza voglia, andavano fatte. Nonostante mi sia
convertito all’uso del Cul de Canard da tanti anni, non mi sono ancora
completamente abituato all’idea di costruire ed utilizzare delle mosche
CdC. Ma queste sono
inezie, dieci anni fa o poco più l’amico Massimiliano Malteno venne
inviato, come cronista della rivista “Pescare”, ad assistere ad una gara
di pesca a mosca, non ricordo esattamente se sulla Dora Baltea od in Val
Soana. Quello che ricordo perfettamente, invece, era l’aria stralunata con
cui raccontava di alcune decine di persone, schierate lungo la riva del
fiume a 15 – 20 metri l’una dall’altra, che usavano degli artificiali
pesanti ed orribili, concludendo che, per quei garisti, la sigla PaM
significava sicuramente “Pesca a Mostro”. Claudio ed io
liquidammo la cosa molto velocemente con un lapidario “Sono cose da
garisti e, si sa, i garisti sono tutti uguali; questi lanciano con la coda
di topo ma non hanno nulla a che vedere con la Pesca a mosca.”. Intendevamo dire
che, mentre noi rispettavamo “l’etica del pescatore a mosca”, per cui il
“come” veniva effettuata ogni singola cattura era assai più importante del
“quanto” veniva catturato, le gare imponevano semplicemente di prendere
quanto più pesce possibile indipendentemente da ogni altra considerazione. Ebbene, oggi può
capitare di andare a pescare in alcune riserve (ricordano tanto quelle
degl’indiani d’America !) e ridursi a sognare di poter aver a
disposizione, tutti e solo per noi, quei 15 – 20 metri di sponda, e dove
quei “mostri”, allora tanto demonizzati ma che adesso rientrano nella
dotazione “di base” della maggior parte dei pescatori a mosca, sono
utilizzati con la massima naturalezza perché : “Altrimenti si prende poco
e piccolo. ”. Alla faccia del
c…. e dell’etica del pescatore a mosca, dico io!!! Ma la vera
superiorità della pesca a mosca non sta nel fatto che il solo piacere del
lancio è già di per sé appagante? L’unica risposta
logica che mi rimane è che questa gente si sia convertita alla pesca a
mosca solo per poter frequentare quei tratti di fiume vietati alle altre
tecniche, d’altra parte pescare a mosca con artificiali che pesano quanto
mezzo ferro da stiro e delle dimensioni di una pannocchia di granturco è
fare dello spinning con la coda di topo, il piacere che ne può derivare
deve essere paragonabile a quello di fare paracadutismo con l’ombrellone
da spiaggia. Comunque mi
piacerebbe sapere cosa ne pensa oggi, se è ancora vivo, quel distinto
signore del Fly Angling Club di Milano (Carlo Rancati) che, durante il
corso di pesca a mosca del ’76, concludendo la presentazione delle varie
tipologie di artificiali disse : “…. e poi ci sono gli streamers, dei
trombini inglesi che servono per prendere i Salmoni. Qualcuno li usa anche
per pescare le grosse Marmorate, ma … non è pesca a mosca ! “. Erano i tempi
delle epiche battaglie dialettiche tra i fautori della “mosca secca” e
quelli delle tre “mosche sommerse”; il Club di Milano era equamente diviso
tra i due schieramenti e gli scontri verbali, anche se avvenivano tra
“fratelli di sangue”, potevano essere molto duri, per fortuna che prima o
poi arrivava il paciere ….. Silvano Rovida, sulle cui capacità di
lanciatore e Pescatore nessuno osava discutere (e non mi riferisco a gente
qualunque ma a personaggi quali Raffaele De Rosa, Carlo Rancati, Sandro
Ghilardi e persino Mario Riccardi) , benvoluto e rispettato da tutti sia
per suoi i modi sempre cortesi e pacati sia perché, pescando sempre e
dovunque con la sua mitica “Pinco Pallino” amo 14 (un’emergente
leggermente sommersa), ognuna delle due fazioni lo riconosceva come un
“proprio membro”. Rispetto ad oggi
quello della pesca a mosca fino alla fine degli anni ’80 era veramente un
altro mondo, eravamo in pochi, agguerriti e veramente convinti della
superiorità etico-sportiva della nostra tecnica. Eravamo anche convinti
che, nel momento in cui fossimo diventati più numerosi, avremmo avuto un
“potere politico” sufficiente a far accogliere le nostre richieste e
saremmo riusciti ad avere acque migliori in cui pescare. Peccato che nel
tentativo di fare proseliti ci siamo “ammorbiditi” abbandonando, a
ragione, alcuni preconcetti legati alla pesca con tecniche diverse dalla
nostra, ma anche accantonando o mettendo in secondo piano una parte di
quelle convinzioni o, se preferite, “regole etiche” che ci
contraddistinguevano.
E le nuove leve ? Beh, come succedeva prima continuano ad aggregarsi ai loro istruttori, noi andiamo in Trentino od in Veneto e loro vengono con noi ! Per alcuni il “Battesimo” del primo pesce a mosca è stato con un Temolo dell’Adige anziché, come vorrebbe “l’ordine naturale delle cose”, con una Fario o con un Cavedano del Bidente. Magari qualcuno ogni tanto va “a Cavedani” nei fiumi della nostra provincia, oppure, finchè ce ne sono, a Trote nel no-kill sul Pietrapazza, e magari non lo raccontano nemmeno o, se lo fanno, il racconto è “buttato là”, quasi a scusarsi dicendo : “…. avevo tre ore libere e piuttosto che passarle davanti alla televisione ……”. Sono cose che non riesco a capire ma forse sono semplicemente riflessioni “a ruota libera” di un pescatore nostalgico, ci sono tante altre considerazioni che vorrei esprimere ma …. non c’è più tempo, rimane comunque il fatto che stento sempre più ad immedesimarmi nella maggioranza dei pescatori a mosca di oggi. Dimenticavo, per i più curiosi il rio Canareccia è un affluente di destra del Tevere in località Valsavignone (uscita E45) che “scoprii “ con l’amico Massimo nell’estate ’77. Da allora è rimasto “il mio posto segreto” che frequentavo non più di tre o quattro volte all’anno per non lasciare tracce troppo evidenti del mio passaggio e limitare al massimo le possibilità di essere visto da qualche “curioso”. Vi assicuro che era assolutamente vergine e, grazie ad una capacità ittiogenica invidiabile, per oltre quindici anni mi ha sempre regalato delle soddisfazioni enormi. Comunque, se non vi fidate, potete sempre chiedere conferma a Maurizio (Molinari) o a Claudio (Guerri), gli unici amici che, dietro solenne giuramento di non rivelarne l’esistenza e di non andarci a pescare senza di me, abbiano avuto la fortuna di godere di questo piccolo paradiso. Peccato che quasi dieci anni fa una piena spaventosa l’abbia letteralmente distrutto, diversamente …. col cavolo che ve ne avrei parlato !
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