Memoria

Paolo Locatelli

 

 

Da sempre l’autunno rappresenta per il pescatore, e per quello a mosca in particolare, il momento dei bilanci; la stagione di pesca, che ormai volge al termine, porta inevitabilmente a ripensare alle uscite dei mesi appena trascorsi ed a confrontarle con quelle di tutti gli anni passati. E’ già diversi anni che pesco a mosca e l’impresa risulta ogni anno più ardua. Per fortuna ( sigh ! ) che negli ultimi anni le uscite sono state veramente poche. Dunque, ho iniziato a pescare a mosca alla fine del 1976, siamo quasi alla fine del 2004, c….. sembra ieri ma in realtà sono già ventotto anni. Strana cosa il tempo e …. strana cosa la memoria ! Ricordi di fiumi, di pesci e di pescatori, ma anche di paesaggi, colori, odori ed intime sensazioni che la pesca, più di ogni altra cosa, è sempre riuscita a trasmettermi. Ma, si sa, la memoria gioca spesso strani scherzi; così “scopro” che, all’inizio di giugno del 1989, quella stupenda mattinata di pesca sul rio Canareccia, in compagnia dell’amico Maurizio, rileggendo il diario di pesca si era conclusa con la cattura di una quidicina di Trote a testa, per due terzi di taglia dai quindici ai ventiquattro centimetri e le altre dai venticinque ai trenta centimetri. Ripensandoci ora c’è qualcosa che non quadra ! Nell’ultima uscita che ho fatto sul Presale a giugno 2003, archiviata come “discreta”, ho catturato, in poco più di due ore di pesca, una ventina di Trote tra cui una di quarantaquattro centimetri, un paio oltre i trentacinque ed altre otto che superavano abbondantemente i trenta. Forse quell’uscita di tanto tempo fa me la ricordo così soddisfacente perché quelle trote avevano una livrea veramente stupenda? Forse i colori ed i profumi del torrente e del bosco erano particolarmente intensi? Alla fine non riesco a darmi altra risposta che “ Non lo so, non lo ricordo e …. forse non me ne frega niente”. L’unica certezza è che, sulla strada che ci riportava a casa, Maurizio ed io eravamo veramente soddisfatti. Strana cosa la memoria! Ricordo con nostalgia com’era, circa venticinque anni fa, la “bassa friulana” ed in particolare l’ultimo tratto del fiume Varmo, quello a valle del ponte di Madrisio alla confluenza con il Tagliamento. All’epoca abitavo alla periferia nord di Milano, per l’esattezza a Bresso, e per raggiungere Madrisio dovevo percorrere quasi 350 chilometri che, con la mia FIAT “cinquecento”, significavano circa cinque ore di viaggio. Ma, allora, cosa mi spingeva ad andarci quasi la metà delle domeniche di settembre se, in un raggio di cento / centocinquanta chilometri al massimo, avevo a disposizione “fiumiciattoli” come l’Adda, il Mera, il Ticino, il Sesia, il Toce, ecc. ? “Prima che lo ruspassero, riducendolo come una pista da bowling, era veramente fantastico e ……. che pescate!” Rileggo i diari di pesca dell’epoca e “scopro” che  quei fantastici pomeriggi di settembre si sono sempre conclusi con la cattura di non più di quindici pesci, per la maggior parte Fario e Temoli dai venticinque ai trentasei / trentasette centimetri e qualche Marmorata dai trenta ai quarantadue centimetri. Eppure, legati a quel periodo ed a quel posto, ho dei ricordi stupendi. Com’è possibile se ricordo come “piuttosto deludente” l’ultima uscita sul fiume Bača, a settembre 2001, nonostante la cattura di ventiquattro pesci tra cui un paio di Trote intorno ai quaranta centimetri, altre due o tre sopra i trentacinque ed una mezza dozzina di Temoli dai trentotto ai quarantadue ? Provo a rispondermi che in settembre la foce del Varmo era uno spettacolo che allargava il cuore, che l’acqua aveva un colore stupendo, che i pesci erano veramente belli ed autoctoni, tutto vero ma …. mi rendo subito conto che non regge. Primo: se avete anche solo una pallida idea dello spettacolo naturale offerto, a fine settembre, dal Sesia o dal Mastallone nei pressi di Varallo o dal Mera nei dintorni di Chiavenna, vi renderete conto di come il paragone con il paesaggio della pianura friulana non sia assolutamente sostenibile. Secondo: se volevo vedere acque dal colore veramente splendido avevo, a due passi da casa o poco più, il Ticino (non a caso soprannominato “il fiume azzurro”) che, tanto in Italia, tra Torre D’Isola e Sesto Calende, quanto in Svizzera, fino alla confluenza con il Brenno, era una meta abituale delle mie uscite di pesca. Terzo: fino alla fine degli anni ’70 i ripopolamenti in acque da salmonidi venivano fatti, quasi esclusivamente, con Iridee per cui Temoli e Marmorate erano sicuramente autoctoni dovunque e, almeno in massima parte, anche le Fario. Provo a cercare motivazioni diverse, del tipo che “erano altri tempi”, “erano altre acque”, “l’esperienza e le capacità tecniche di allora non sono nemmeno paragonabili a quelle attuali”, ma ancora una volta torno a ripetermi che “non lo so, non ricordo e … forse non me frega …”. Eh no! Come sarebbe che non me ne frega niente ? Non può essere che abbia sperperato cifre che, per me ancora studente, erano al limite delle possibilità per il solo gusto di andare a pescare, come diceva mia nonna, “a cà del diavolo” ! A questo punto diventa indispensabile trovare una risposta soddisfacente alla domanda : “Cos’è cambiato in questi anni?”. Decido di rinfrescarmi la memoria rileggendo, non più a caso ma in sequenza cronologica, i diari di pesca dal 1977 al 1996 e di approfittarne per fare una piccola statistica su taglia e numero delle catture di Trote e Temoli con la mosca. L’impresa si rivela notevolmente più ardua del previsto poichè, al di là delle necessarie pause per ricordare le caratteristiche di numerosi fiumi e torrenti che da allora non ho più frequentato, solo tra l’inizio del ‘77 e la fine del ’79 mi accorgo di aver effettuato quasi  trecento uscite di pesca (per l’esattezza 286 di cui circa un terzo a mosca e le altre a spinning); che tempi !!! E comunque, a parte la quantità dei dati da analizzare, quello che soprattutto mi rallenta è il ricordo dei compagni di pesca di allora, alcuni ormai quasi dimenticati, ma che in quegli anni erano davvero come fratelli.

Massimo : compagno di scuola all’I.T.I.S. di Monza ma soprattutto compagno delle pescate del sabato, a cui non è mai fregato niente della pesca a mosca, ma instancabile pescatore quanto me e con il mio stesso desiderio di esplorare i corsi d’acqua più nascosti.  Il suo motto, che recitava con orgoglio ogni volta che tiravo fuori la canna da mosca era: “Un uomo, un fiume, una canna, un mulinello e cento cucchiaini “. Con lui, nell’estate del ’77, ci siamo fatti 38 giorni di pesca consecutivi percorrendo tutto l’Appenino da Premilcuore alla Sila, ed in quella successiva addirittura 48 giorni ( ma “solo” 42 di pesca ) da S.Piero in Bagno al Gran Sasso più tutto l’interno della Sardegna.

Luigi : con cui nel ’76 ho frequentato il corso di pesca a mosca organizzato dal Fly di Milano sotto la guida del mitico Silvano Rovida.  Gigi, compagno di quasi tutte le pescate domenicali, “era un grande”; possedeva due Pezon et Michel in bambù da 7’1/2 per coda 5 uguali, ma ne usava sempre e solamente una. Quando, alla fine del ’79, lasciò la splendida fanciulla con cui era ufficialmente fidanzato da oltre quattro anni, perché gli toglieva tempo e denaro che avrebbe potuto dedicare alla pesca a mosca, Massimo avanzò l’ipotesi che l’altra canna se la fosse fumata in un momento di furore mistico.

Enrico: compagno alla “scuola superiore per programmatori” presso l’IBM di Segrate e compagno di molte uscite in Valsesia e di tutte le pescate sul Toce e sul Ticino svizzero. Sua madre era svizzera, di Bellinzona o dintorni, e, grazie alle conoscenze del suo nonno materno, riuscivamo ad ottenere i permessi di pesca per alcuni tratti piuttosto “esclusivi” del Ticino. Di lui ricordo la grande passione per la pesca a mosca e , grazie ad una disponibilità economica elevata, gli assegni che “staccava” tutte le volte che andavamo nei negozi di Ravizza o Garue. Ma come pescatore la sua caratteristica principale era la più assoluta mancanza di “senso dell’acqua”, nonostante pescasse a mosca da parecchi anni non aveva la più pallida idea di dove trovare un pesce e, sorretto da una fede incrollabile, poteva continuare a lanciare per ore dovunque ci fosse dell’acqua. La sua maggior fortuna era quella di avere una faccia simpaticissima, certe sue espressioni ricordavano quelle di Cucciolo dei sette nani di Walt Disney (a cui forse aveva fregato le orecchie), per cui, a parte gli amici, trovava sempre qualcuno che si impietosiva e lo accompagnava “sul pesce”.

E poi Enzo, Dante, Piero ed infine, ultimo in questo elenco ma primo per importanza, il grande, l’incommensurabile, il mitico Silvano, l’unico amico di allora che mi sia rimasto, che, per le sue doti umane e “piscatorie”, meriterebbe ben più di un libro e che non posso liquidare in poche righe. Alla fine, dopo parecchie ore di lavoro, mi trovo ad aver generato un “data base” piuttosto corposo ed articolato che, con gli strumenti informatici in mio possesso, ho la possibilità di elaborare in diversi modi; così mi rendo conto che sul Varmo ci andavo perché ne valeva veramente la pena, non tanto per il numero delle catture, dagli otto ai quindici pesci nel corso delle sette uscite effettuate nel triennio ’77-’79, quanto per la taglia delle medesime che, mediamente e per ogni specie, superava di oltre cinque centimetri la taglia media delle catture effettuate su fiumi “omogenei” quali il Sesia, il Toce ed il Mera. Una bella differenza ! Per quanto riguarda il rio Canareccia, invece, il motivo di tanta soddisfazione derivava tanto dal numero di catture quanto dalla taglia delle medesime. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, anche nei nostri torrenti più pescosi quali il Rabbi a Premilcuore o la parte bassa del Bidente delle Celle, in due solo raramente riuscivamo a catturare più di una ventina di Trote, e per prenderne una decina di taglia dai venticinque centimetri in su potevano non bastare tre uscite. Ma, al di là della raccolta dei dati a fini statistici, la rilettura di quei diari mi è servita ad effettuare un “viaggio nella memoria” lungo vent’anni che mi ha aiutato a capire come e quanto siamo cambiati noi ed il mondo della pesca a mosca. In effetti, quando i cambiamenti avvengono in modo lento e progressivo abbiamo tutto il tempo per “metabolizzarli” senza traumi, così ci ritroviamo, senza rendercene conto, “diversi in un mondo diverso”, e la memoria (… strana cosa la memoria!) modifica i ricordi del “come eravamo” avvicinandoli al “come siamo” ben più di quanto si possa immaginare. Una delle tante cose che mi ha colpito, per esempio, è stata quella di “scoprire” che quelle ormai famose trenta Trote del rio Canareccia erano state catturate tutte con delle Humpy Red su amo 12. Mitica Humpy Red ! In quegl’anni  era una delle mie mosche estive preferite, e pensare che solo una quindicina di giorni fa nemmeno ricordavo che esistesse! Ma oggi le mosche ce l’hanno ancora un nome ? Personalmente, ormai già da qualche anno, nei miei diari di pesca sono stato costretto a sostituire il nome della mosca con il suo dressing. Una volta tutte le mosche avevano un nome e con questo venivano identificate in maniera inequivocabile, allora andavamo a pescare con la Gordon Quill, la Red Spinner, la Panama, le Black e Blue Zulù, la Grayling Witch, la Wickam’s Fancy, la Iron Blue Dun, ecc., nomi di per sé sufficienti a solleticare la fantasia con magiche promesse di stupende catture, a quei tempi, le pur eccezionali 699 di Devaux o RM6 di Riccardi, erano guardate con un certo sospetto perché non avevano un nome; in pratica era un po’ come la differenza che può passare tra leggere il numero sulla divisa di un carcerato e leggere il nome sulla targhetta di un alto funzionario, resta da dimostrare quale dei due sia la persona migliore ma l’approccio iniziale è sicuramente a favore del secondo. Oggi gran parte della magia di allora, in parte legata alla scarsità di informazioni, si è persa. Alla fine degli anni ’70 la domanda che Luigi ed io ci ponevamo prima di partire era : “Andiamo a pesce o a imparare ? “. Nel primo caso partivamo per pescare veramente e potevamo scegliere dove andare tra decine di acque che, probabilmente, le uniche mosche che avevano visto erano le nostre. Nel secondo lo scopo principale era quello di osservare, “travestiti da pescatori”, i moscaioli più esperti per cercare di carpire qualche “segreto”; in questo caso le mete erano quasi obbligate: Sesia nei dintorni di Varallo o Ticino nella zona di Vigevano. Adesso possiamo leggere (e rileggere ! n.d.r.) tutto di tutto, abbiamo videocassette, programmi televisivi  e ….. andiamo a pescare con l’emergente CdC; per me CdC ha sempre significato C…. di Cane ed era sinonimo di BdG (Boia d’un Giuda). Le cose fatte alla CdC, o alla BdG, erano cose fatte male, tanto per fare o perché, pur senza voglia, andavano fatte. Nonostante mi sia convertito all’uso del Cul de Canard da tanti anni, non mi sono ancora completamente abituato all’idea di costruire ed utilizzare delle mosche CdC. Ma queste sono inezie, dieci anni fa o poco più l’amico Massimiliano Malteno venne inviato, come cronista della rivista “Pescare”,  ad assistere ad una gara di pesca a mosca, non ricordo esattamente se sulla Dora Baltea od in Val Soana. Quello che ricordo perfettamente, invece, era l’aria stralunata con cui raccontava di alcune decine di persone, schierate lungo la riva del fiume a 15 – 20 metri l’una dall’altra, che usavano degli artificiali pesanti ed orribili, concludendo che, per quei garisti, la sigla PaM significava sicuramente “Pesca a Mostro”. Claudio ed io liquidammo la cosa molto velocemente con un lapidario “Sono cose da garisti e, si sa, i garisti sono tutti uguali; questi lanciano con la coda di topo ma  non hanno nulla a che vedere con la Pesca a mosca.”. Intendevamo dire che, mentre noi rispettavamo “l’etica del pescatore a mosca”, per cui il “come” veniva effettuata ogni singola cattura era assai più importante del “quanto” veniva catturato, le gare imponevano semplicemente di prendere quanto più pesce possibile indipendentemente da ogni altra considerazione. Ebbene, oggi può capitare di andare a pescare in alcune riserve (ricordano tanto quelle degl’indiani d’America !) e ridursi a sognare di poter aver a disposizione, tutti e solo per noi, quei 15 – 20 metri di sponda, e dove quei “mostri”, allora tanto demonizzati ma che adesso rientrano nella dotazione “di base” della maggior parte dei pescatori a mosca, sono utilizzati con la massima naturalezza perché : “Altrimenti si prende poco e piccolo. ”. Alla faccia del c…. e dell’etica del pescatore a mosca, dico io!!! Ma la vera superiorità della pesca a mosca non sta nel fatto che il solo piacere del lancio è già di per sé appagante? L’unica risposta logica che mi rimane è che questa gente si sia convertita alla pesca a mosca solo per poter frequentare quei tratti di fiume vietati alle altre tecniche, d’altra parte pescare a mosca con artificiali che pesano quanto mezzo ferro da stiro e delle dimensioni di una pannocchia di granturco è fare dello spinning con la coda di topo, il piacere che ne può derivare deve essere paragonabile a quello di fare paracadutismo con l’ombrellone da spiaggia. Comunque mi piacerebbe sapere cosa ne pensa oggi, se è ancora vivo, quel distinto signore del Fly Angling Club di Milano (Carlo Rancati) che, durante il corso di pesca a mosca del ’76, concludendo la presentazione delle varie tipologie di artificiali disse : “…. e poi ci sono gli streamers, dei trombini inglesi che servono per prendere i Salmoni. Qualcuno li usa anche per pescare le grosse Marmorate, ma … non è pesca a mosca ! “. Erano i tempi delle epiche battaglie dialettiche tra i fautori della “mosca secca” e quelli delle tre “mosche sommerse”; il Club di Milano era equamente diviso tra i due schieramenti e gli scontri verbali, anche se avvenivano tra “fratelli di sangue”, potevano essere molto duri, per fortuna che prima o poi arrivava il paciere ….. Silvano Rovida, sulle cui capacità di lanciatore e Pescatore nessuno osava discutere (e non mi riferisco a gente qualunque ma a personaggi quali Raffaele De Rosa, Carlo Rancati, Sandro Ghilardi e persino Mario Riccardi) , benvoluto e rispettato da tutti sia per suoi i modi sempre cortesi e pacati sia perché, pescando sempre e dovunque con la sua mitica “Pinco Pallino” amo 14 (un’emergente leggermente sommersa), ognuna delle due fazioni lo riconosceva come un “proprio membro”. Rispetto ad oggi quello della pesca a mosca fino alla fine degli anni ’80 era veramente un altro mondo,  eravamo in pochi, agguerriti e veramente convinti della superiorità etico-sportiva della nostra tecnica. Eravamo anche convinti che, nel momento in cui fossimo diventati più numerosi, avremmo avuto un “potere politico” sufficiente a far accogliere le nostre richieste e saremmo riusciti ad avere acque migliori in cui pescare.  Peccato che nel tentativo di fare proseliti ci siamo “ammorbiditi” abbandonando, a ragione, alcuni preconcetti legati alla pesca con tecniche diverse dalla nostra, ma anche accantonando o mettendo in secondo piano una parte di quelle convinzioni o, se preferite, “regole etiche” che ci contraddistinguevano. Poi la crescita tanto attesa è arrivata, alla fine degli anni ’90 si è verificato un vero e proprio “boom della pesca a mosca”, l’incremento numerico è stato enorme ma anomalo perché ha concentrato, in parte per colpa nostra, un numero esagerato di pescatori, tutti con le medesime esigenze, in “brevi” tratti di “pochi” fiumi e torrenti. Mi spiego meglio, se fino a dieci o quindici anni fa noi “vecchi” del Club andavano a  pescare trenta volte nell’arco di una stagione, venticinque erano sui nostri torrenti e solo cinque, normalmente tra Maggio e Settembre, su fiumi più “blasonati”. Alla fine di Febbraio terminavamo la parte del corso di apprendimento in palestra ed i nuovi moschisti, che completavano il corso con la parte sulla costruzione, continuavano a frequentare regolarmente il Club fino alla fine di Aprile e sentivano i racconti delle uscite fatte sui torrenti del nostro Appennino. Noi frequentavamo queste acque e loro, che almeno inizialmente si aggregavano alle nostre avventure, su queste iniziavano a pescare a mosca. Poi “cominciavano a camminare con le loro gambe” e dalla fine di Aprile, se smettevano di venire al Club, non li si rivedeva più; andavamo a pescare regolarmente, sia noi che loro, ma trovarsi sullo stesso fosso nello stesso giorno era come fare terno al lotto. Tutti ci accontentavamo di prendere quelle otto / dieci Trote a testa, ma non sempre ci si riusciva, e la taglia media si aggirava tra i diciannove ed i venti centimetri o poco più. C’erano, com’è giusto che sia ancora oggi, le giornate più proficue e quelle meno,  le giornate in cui se ne catturava qualcuna che superava, talvolta anche abbondantemente, i venticinque centimetri e quelle in cui non si prendeva niente, comunque, tra alti e bassi, eravamo contenti così. Poi è successo che noi “vecchi” ci siamo letteralmente innamorati di quei fiumi più “blasonati”, dei grandi spazi e ….. dei grandi pesci; nel cuore di molti la Fario è stata spodestata dal Temolo. Natisone,  Meduna, Piave, Adige, sono diventate le mete sempre più abituali delle nostre uscite, anziché a Maggio abbiamo iniziato a frequentarle fin da Febbraio o Marzo ed il rapporto tra le pescate “casalinghe” e quelle “in trasferta” si è letteralmente invertito. Quando, col passare degli anni e l’aumentare degli impegni, il tempo da dedicare alla pesca si è drasticamente ridotto abbiamo finito per abbandonare completamente i nostri fossi.

E le nuove leve ?

Beh, come succedeva prima continuano ad aggregarsi ai loro istruttori, noi andiamo in Trentino od in Veneto e loro vengono con noi ! Per alcuni il “Battesimo” del primo pesce a mosca è stato con un Temolo dell’Adige anziché, come vorrebbe “l’ordine naturale delle cose”, con una Fario o con un Cavedano del Bidente. Magari qualcuno ogni tanto va  “a Cavedani” nei fiumi della nostra provincia, oppure, finchè ce ne sono, a Trote nel no-kill sul Pietrapazza, e magari non lo raccontano nemmeno o, se lo fanno, il racconto è “buttato là”, quasi a scusarsi dicendo : “…. avevo tre ore libere e piuttosto che passarle davanti alla televisione ……”. Sono cose che non riesco a capire ma forse sono semplicemente riflessioni “a ruota libera” di un pescatore nostalgico, ci sono tante altre considerazioni che vorrei esprimere ma …. non c’è più tempo, rimane comunque il fatto che stento sempre più ad immedesimarmi nella maggioranza dei pescatori a mosca di oggi. Dimenticavo, per i più curiosi il rio Canareccia è un affluente di destra del Tevere in località Valsavignone (uscita E45) che “scoprii “ con l’amico Massimo nell’estate ’77. Da allora è rimasto “il mio posto segreto”  che frequentavo non più di tre o quattro volte all’anno per non lasciare tracce troppo evidenti del mio passaggio e limitare al massimo le possibilità di essere visto da qualche “curioso”. Vi assicuro che era assolutamente vergine e, grazie ad una capacità ittiogenica invidiabile, per oltre quindici anni mi ha sempre regalato delle soddisfazioni enormi. Comunque, se non vi fidate, potete sempre chiedere conferma a Maurizio (Molinari) o a Claudio (Guerri), gli unici amici che, dietro solenne giuramento di non rivelarne l’esistenza e di non andarci a pescare senza di me, abbiano avuto la fortuna di godere di questo piccolo paradiso. Peccato che quasi dieci anni fa una piena spaventosa l’abbia letteralmente distrutto, diversamente …. col cavolo che ve ne avrei parlato !